La responsabilità dell'inconscio (giovedì 15 novembre ore 15.30) aula DEA cubo 17/B IV piano
Perrelliani all’Unical
Ettore
Perrella,
maestro indiretto
maestro indiretto
di Massimo Celani
La
domanda vien da sé: cos'è un maestro indiretto?
Un maestro indiretto non è il tuo
maestro, è quello che insegna nell’altra classe. Il suo insegnamento ti arriva
da un altrove.
Una maestra indiretta non ti è davanti, ma ogni tanto ti arriva la sua voce. Tu fai letteratura e senti che di là stanno parlando di storia, tu fai storia e senti che di là fanno disegno. Tu fai disegno e senti che di là scoppia la musica. Poi, mentre studi, scopri che vicino a dove sei c’è un cinema all’aperto, lo capisci perché ti arrivano le voci. Tu ascolti e completi la scena con le immagini invisibili suscitate dalle voci: le scrivi! Sei una ragazzina e ti domandi: allora le immagini possono essere scritte? Non lo sai ... ma chiudi il libro, e vai al cinema. Entri e scopri che si tratta d’un film di Godard. Guardi il film aspirando la prima sigaretta, e quando esci ti senti diversa, saltelli e saluti in cuor tuo il signor Godard. Buongiorno signor Godard! Ti sembra di conoscerlo, sì, lo saluti come se fosse un tuo maestro, uno di quelli indiretti. Il bello d’un maestro indiretto è che non sa di esserlo e non ti giudica[1].
Una maestra indiretta non ti è davanti, ma ogni tanto ti arriva la sua voce. Tu fai letteratura e senti che di là stanno parlando di storia, tu fai storia e senti che di là fanno disegno. Tu fai disegno e senti che di là scoppia la musica. Poi, mentre studi, scopri che vicino a dove sei c’è un cinema all’aperto, lo capisci perché ti arrivano le voci. Tu ascolti e completi la scena con le immagini invisibili suscitate dalle voci: le scrivi! Sei una ragazzina e ti domandi: allora le immagini possono essere scritte? Non lo sai ... ma chiudi il libro, e vai al cinema. Entri e scopri che si tratta d’un film di Godard. Guardi il film aspirando la prima sigaretta, e quando esci ti senti diversa, saltelli e saluti in cuor tuo il signor Godard. Buongiorno signor Godard! Ti sembra di conoscerlo, sì, lo saluti come se fosse un tuo maestro, uno di quelli indiretti. Il bello d’un maestro indiretto è che non sa di esserlo e non ti giudica[1].
Egli infatti ha avuto la
fortuna di non avere alle calcagna la muta universitaria. [2]
Perrella è per me un maestro indiretto. Non l’ho
mai conosciuto – come suol dirsi – di
persona ma ne sbircio l’insegnamento da una quarantina di anni. Questa idea
di stare a origliare, di non essere esposti direttamente ma di registrare nel dipoi che voci e ragionamenti che hai
intrasentito distrattamente, come dietro a un velo, come suoni che
provenivano da un’altra stanza, sono andati a segno, è piuttosto pitagorica. Buongiorno
signor Perrella! Credo di essermi imbattuto in un suo scritto, per la prima
volta, nel 1976 [3]
Poi nel 1978[4].
Oppure poco prima, una decina di pagine nel collettaneo “Associazioni psicanalitiche
e formazione degli psicanalisti” [5]Erano
anni in cui Perrella rimase impigliato negli ingranaggi di quella macchina
buffa chiamata “Spirali”. Coinvolgimento minimo: una recensione al libro di
Achille Bonito Oliva. [6] L’anno
appresso usciva per Sugarco, Dittico:
Pavese e Pasolini.
Ma, a parte il coinvolgimento nel collettivo “Semiotica
e psicanalisi” e nella rivista Vel, precursore di Spirali, feci amicizia con Perrella grazie a quella meravigliosa iniziativa
editoriale di “In forma di parole”. Editoria minore, solo per il formato, curatissima,
coi testi a fronte e le note dei traduttori, e dunque maggiore. Tanto erano pieni di grazia e a corpo piccolissimo, tascabili,
anzi “manuali”, nel senso che ti stavano in mano, in un patto tra scrittori,
traduttori e lettori per il quale non si dovrebbe smettere di ringraziare
Gianni Scalia e Marco Belpoliti.
Perrella (ma sarei tentato di appellarlo Perelà, come il “sapiente, superiore,
eccezionale” compilatore del codice palazzeschiano) ha rappresentato a lungo e
a distanza una doppia iscrizione in questi due microsistemi in ebollizione: da
un lato la tradizione socialista volitiva,
dei De Michelis e di Marsilio, di Massimo Pini e Piero Sugar, dall’altra la
gentilezza, il tatto e la delicatezza di una tensione verso la poesia. Ecco
dunque “Iside, Osiride e l’uomo senza
qualità”, un breve saggio su alcune liriche di Robert Musil tradotte da
Perrella[7]. In un
numero memorabile che contiene anche Lituraterra
di Jacques Lacan e L’immagine di
Roland Barthes.
L’anno appresso è la volta di Eros, Charis, Aidòs, venti paginette dedicate al “valore iniziatico
e quindi pedagogico dell’eros della Grecia”[8]. Non a
caso qualche anno dopo arrivarono, sempre per i tipi elitropici, i Sonetti di Shakespeare, con traduzione,
introduzione e commento di Perrella.
Ricordo ancora oggi la festa per quando il
portalettere mi consegnava il piego di
libri per conto di “Il catalogo”, una specie di Amazon Prime dell’epoca,
solo più raffinato. Tool e Brand extension di “In forma di
parole”- come si direbbe oggi – piattaforma per il collegamento di
amici/utenti, logofili più che filologi.
Posso dire che con Perrella, senza averlo mai
visto in faccia, siamo amici da 40 anni all'incirca. Poco importa se forse ci
siamo pure sfiorati nel 1980 a Milano, al palazzo delle Stelline, per un
convegno spiralesco (internazionale ma, per fortuna, ancora non planetario) su
“L’inconscio”. E’ l’idea del corteo degli amici-testi,
di vicini di libro, come fossero ombrelloni, lanciata da Roland Barthes nel
1977 a Cerisy e – a seguire –da Gianni
Scalia, vale a dire da chi metteva a disposizione in traduzione italiana (realizzata
da Anna Rocchi Pullberg) quel breve testo estemporaneo in cui si glissava dalla
sospensione del giudizio all’astensione dalle immagini.
Certo che in quello sfiorarsi a Milano dovevo
essere piuttosto distratto, forse perché pendevo dalle labbra di Jean Oury, tra
i pochi coraggiosi che si cimentava con gli psicotici. La mia breve pratica
nelle istituzioni, tra un CIM e l’altro, mi avevano già condotto da Solomon Resnik,
per un po’ al “Gemelli” da Pietro Bria, da Ugo Amati (il tempo di un bagno a
mare e di portare all'Accademia Cosentina un po’ di Voci del Santa Maria della Pietà) e per molti anni da Olga Pozzi.
Insomma cercavo roba tosta, inscalfibili, gente quadrata, tetragona a ogni
sorte e Perelà mi sembrò più serio e meno
mondano rispetto agli altri spiraliformi, ma ingenuamente cercavo un lampo, un
elettrochoc formativo, un Lacan. Me lo richiedeva l’amico Santelli, al CIM di
Cosenza, che mi trascriveva ciò che gli suggerivano le lampadine. Altro che
“macchina telepatica” e signore dai cognomi altisonanti, io non sapevo cosa
farci, avevo bisogno di un training veloce e intensivo dans les Cévennes, possibilmente con Fernand Deligny. Non feci in
tempo a mettere in piedi una rete e l’amico psicotico se ne andò in bicicletta,
investito da un’automobile.
Poi venne “il tempo etico” e la mia percezione
cambiò definitivamente. Sarebbe da stupidi tesserne le lodi. Mi limiterò a
mostrare in che condizioni è il suo libro fondamentale. Sottolineato,
evidenziato, schedato, tormentato, interrogato, torturato. Sporcato fino
all’inverosimile.
Da copywiter mi occupavo di “evocativo”. Se per il
naming di un agriturismo vagavo tra il destriero, il ronzino, ‘u ciucciu, lo zoccolo duro e la metonimia de “le
selle”, aprivo Il tempo etico e
trovavo quanto segue:
“Dar voce, evocare, significa costituire nel campo
dell’essente ciò che non vi era. La voce, in quanto appello all'essere, crea
dal nulla quello che non era. La vocazione soggettiva dipende dunque dall'essere chiamato del soggetto a un suo posto per l’Altro. E’ questa la
funzione essenziale di quell'Altro, primario per ogni soggetto, che chiamiamo
con qualche approssimazione la madre. La madre è chi insegna a parlare, è chi
chiama* ad essere un soggetto. Tale vocazione essenziale del soggetto è
significata ed è rappresentata nell'assegnazione del nome, ma non coincide con
essa. Il fatto di essere individuato da un nome proprio assegna al soggetto un
posto nell'essente. Ma il nome proprio può solo rinviare a tale vocazione, non
esprimerla. Il vero nome del soggetto non è il suo nome proprio, ma la
vocazione stessa che lo ha esposto alla luce del simbolico, è l’attesa a riempire
la quale esso è stato chiamato “[9].
Qui,
caro Luca, il tuo pubblicitario di provincia (ricorderai che l’agenzia, non a
caso, si chiamava lacosa) certo
s’imbatte in un’altra dit-mension a
te cara, il trovare senza cercare – e fin qui è Picasso – insomma la
serendipity[10].
E ancora: “(…) il verbo *chiamare risulta ambiguo. Significa sia rivolgersi ad un soggetto,
nella dimensione dell’evocazione e dell’appello, sia dare un nome. Queste due
determinazioni finiscono col coincidere. Almeno nel senso che dare un nome a
qualcosa significa evocarla”[11].
E ancora di recente, alle prese con lacosa delle ricerche di denominazione,
per Mario Abis che cercava un brand per una nuova società di consulenza
sportiva, eccomi di nuovo a pescare nella testualità perrelliana ciò che i
pubblicitari con mesto tecnicismo definiscono reason why:
(...) "che cosa fece di Olimpia, questo pezzo di terra
sperduto in una delle regioni più povere e remote della Grecia, la
madre delle corone auree, signora della verità, come si esprime
Pindaro? (…)
Agōn, prima di avere il senso che
oggi diremmo sportivo, significava in greco semplicemente raccogliersi attorno
ad un evento. L’agone può essere di navi, come nell’Iliade, o di uomini in una piazza o attorno ad una gara. Agōn
è l’essere condotti, ma la radice verbale è la stessa dell’agere latino. L’agone dunque non è solo la gara, ma il
raccoglimento grazie al quale un semplice accadere acquista la dignità di
evento”. (pp.59-61)[12]
Doveva essere Agon
sas, poi optammo per un’altra denominazione più calzante. Ma ne riporto gli
aneddoti per via dell’uso – come dire – ripetutamente extra-psicanalitico di
una posizione e di una rilettura kantiana che ben presto mi apparve monumentale.
Dunque potrei definirmi un copywriter perrelliano. E se fossi psicanalista
userei lo stesso aggettivo.
La questione è nota: instaurare un bel “noi” al
posto dell’io (principe della schifezza pronominale), in cambio del “perfezionarsi
dell’ubbidienza” di cui scriveva Lacan in “Scilicet”. Così può accadere che
nell’ambiente universitario, quello storicamente più resistente all’apsicoanalisi (sic), incuranti dei vel e degli aut aut,
siano diventati tutti, ma proprio tutti, lacaniani.
Tutti presi nella fabbrica di inutili pubblicazioni (cfr. la lacaniana poubelle) a interrogarsi sul rapporto
tra filosofia e psicanalisi[13]. Anche
quando dovrebbe essere troppo facile raddoppiarne il gioco e la canzonatura[14].
Lacan,
è noto, continuava a dirsi freudiano, non senza qualche ironica sottolineatura. Il
senso era “affari vostri se volete dirvi lacaniani”. Potrò autorizzarmi a dire
di essere un pubblicitario perrelliano? Pure con qualche elemento di verità che ho or ora mostrato, appuntando che
grazie a quel testo, a quel tempo etico, a quella ragione freudiana mi
destreggio un po' meglio. Perlomeno in uno scenario di provincia e in un orizzonte
meridionale. Rileva Marco Focchi che “destreggiarsi
(se debrouiller), non a caso è una delle
ultime parole di Lacan, un’indicazione per tentare di uscire dall'incubo di
un'esistenza senza speranza”. Perrella, molto meglio di Perelman, mi aiuta a
decidere le parole giuste (per cosa?). A sbrogliare la matassa che da queste parti si usa chiamare mmuolicu. In questi tempi salviniani, non di certo
salvifici, ce n’è bisogno.
O forse sarà meglio aumentare la dose del
Brintellix?
Grazie dunque al prof. Luca
Lupo, a cui dobbiamo l’invito di un comunque-maestro. In questa università che
considero semi-mia, non fosse per altro che mi è cresciuta affianco, son
contento se c’è una banda freudiana che, anche qualora dovesse riprenderlo alla
sua maniera, insomma senza capirci niente, possa risultare attratta da un buon pascolo.
[15]
[1] Ida Travi, “I maestri indiretti”, courtesy
“Versante ripido” http://www.versanteripido.it/intervista-a-ida-travi/
[2] Jacques
Lacan, “Prefazione a una tesi”, in Altri
scritti, testi riuniti da Jacques_Alain Miller, edizione italiana a cura di
Antonio Di Ciaccia, Einaudi, 2013 (Editions du Seuil, 2001), pag.396
[3] “Citazione, tradizione, tradimento. Per una
riconsiderazione psicanalitica del Manierismo”, in “Vel”, n.4, Droga e linguaggio, Marsilio, 1976.
[4] “Perversione
del diritto e stregoneria”, in Il
politico e l’inconscio, a cura di V. Fainberg. R. Močnik e A. Verdiglione,
Marsilio, 1978. Praticamente gli atti del convegno internazionale di Lubiana,
tenutosi l’anno prima. Anno in cui, stesso editore e analogo coté pubblicava Il martello delle streghe di Institor e Sprenger.
[5] “Simbolismo e simbolico. Note sulla
funzione dell’enigma e l’insegnamento della psicanalisi”, in “Vel”, n.5, Associazioni psicanalitiche e formazione
degli psicanalisti, Marsilio, 1977
[6] “Lo strabismo di Apollo, ovvero
dell’intellettuale come artista”, in”Vel” n.8, Dissidenza dell’inconscio e poteri, Marsilio, 1978
[7] “In
forma di parole”, libro secondo, Elitropia Edizioni, Reggio Emilia, novembre
1980.
[8] “In
forma di parole”, libro terzo, Elitropia Edizioni, Reggio Emilia, luglio 1981.
[9] Ettore
Perrella, Il tempo etico (o la
ragione freudiana), Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 1986, p.220
[10] Luca
Lupo, Filosofia della serendipity,
Guida, Napoli, 2012
[11] Ettore
Perrella, ibidem (ho rimaneggiato leggermente il passo).
[12] Ettore Perrella, “Agone”, in Il corpo o il senso, a cura di Mario
Binasco, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 1987
[14] Cosa che
feci in anni a noi vicini con Di Ciaccia, a cui donai alcune tazze (mug) che celebravano la fatidica
interrogazione sul connettivo logico. Di Ciaccia, non senza umorismo, mostrò di
apprezzare.
[15] “Devo
ammetterlo: in un momento difficile in cui disperavo dello psicoanalista ho
ingenuamente riposto qualche speranza, non nel discorso universitario che non
avevo ancora modo di circoscrivere, bensì in una specie di “opinione vera” che
attribuivo al suo corpo (Hénaurme!,
come avrebbe detto chi sappiamo).
Lacan si riferisce a Flaubert. Jacques Lacan, “Prefazione
a una tesi”, in Altri scritti, op.cit, pag.395.
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