In punta di penna

Cosenza, Corso Telesio, Palazzo Compagna, dal lunedi al sabato dalle 17:00 alle 20:30

Post-it a margine dell’opera di Gianfranco Pugliese



Ho pensato che Gianfranco, per la notte dei musei, avrebbe gradito. Per dirla tutta, visto lo squallore diffuso tra i musei di Rende e Cosenza, che gli fosse dovuto.

Ho cercato di resistere alla tentazione di partire dal medium, insomma dalla penna Bic. Ovviamente era un diavoletto tentatore, in agguato, e non ci sono riuscito. Solo l’ho presa da più lontano, da un annuncio pubblicitario di rara eleganza che si deve all’estro di Jacques Séguéla. Più precisamente si tratta di un omaggio a Marcel Bich (appelé aussi le baron Bich): dice semplicemente che “una fiamma si è spenta”.



Il nome della "penna a biro Bic" è un capolavoro si sintesi di storia aziendale: cofondata a Clichy nel 1945 dal barone di origine torinese Marcel Bich, che ottenne i diritti di brevetto della penna sfera dall'inventore argentino-ungherese László József Bíró. 
« Il suffit de prononcer le mot Bic pour se retrouver immédiatement transporté aux temps plus ou moins bénis de notre scolarité. Que ce soit pour prendre des notes ou dessiner l’ennui, beaucoup d’étudiants utilisent en effet des bics. Et la marque éponyme joue largement sur cet aspect nostalgique ».





Bic non vuol dire solo stylo e papeterie, ma pure briquets e rasoirs. Più di recente si sono aggiunte le tavole da surf. La filosofia degli oggetti è presto detta.
SIMPLES, INVENTIFS ET FIABLES, POUR TOUS, PARTOUT DANS LE MONDE, N'IMPORTE QUAND.



Un catalogo Bic è un catalogo dei semplici sottoscrivibile e sovrapponibile a quello di Jean Oury. Il semplice è una categoria complessa, il contrario del semplicismo.
Anche Bic poteva ampliare la gamma di oggetti di basso costo e di largo consumo ma ha deciso di stare sull'iperisotopia e produrre solo penne, rasoi e accendini.


Anche 3M poteva produrre un sacco di oggetti. E prima così faceva (supporti di registrazione, nastri audio cassette videocassette, colle potentissime) e invece oggi solo fa solo i post-it, i biglietti riposizionabili. Ha fatto di un paradosso (la colla che non incolla, la colla debole, la colla che incolla poco) il punto di caratterizzazione. Ha ribaltato la dinamica minus - plus, ha fatto del punto di debolezza il punto di forza. Ha messo in movimento, reso dromico, ciò che era inamovibile. Ha  preso alla lettera Paul Virilio, con particolare riferimento a velocità e politica. Così adesso i Post-it spuntano dappertutto. Dai libri, dai quaderni, dai faldoni, dagli archivi, forti come sono di facilitare l'accesso, di trasformare il lineare in ipertestuale, di rappresentare sintesi e abstract. Praticamente han cambiato il modo di studiare. Scrivo ai margini e in compresenza, chissà se Derrida ne abbia mai calcolato gli effetti in termini di parerga. E prima erano solo piccoli e gialli, ora sono in ogni formato e in tanti colori.

(Restrizioni, sottrazioni, costrizioni)
La creatività è un concetto tanto sopravvalutato quanto vuoto. Come se prescindesse dalla capacità di ragionamento, dal rigore, da un sapere, dalla conoscenza di tecniche, norme, usi, leggi, canoni e precursori. Raymond Queneau, in anni lontani constatava quanto fossimo schiavi di leggi che ignoriamo. “Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo di altre regole che ignora”. (…) E’ questa la lezione dell’Oulipo, da Queneau a Italo Calvino: 

l’esplorazione delle potenzialità del linguaggio che scaturiscono proprio dalla costrizione, dall'autoimposizione di regole arbitrarie.

Si tratta insomma di opporre una costrizione scelta volontariamente alle costrizioni subite, imposte dall’ambiente (linguistiche, culturali, ecc.). Questa è pure la lezione politica di Ennio Flaiano:

“Da ragazzo ero anarchico, adesso mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi governa”.
"Da giovane odiavo ogni regola, adesso tento di impormene una o due". 


L’opera di GP è dell’ordine del potlatch. Parola e pratiche descritte da Franz Boas e da Marcel Mauss che hanno sempre affascinato studiosi e scrittori, fino a denominare allo stesso modo un importante gruppo teatrale. In poche parole descrive le ostentate pratiche distruttive di beni considerati di prestigio. Nel potlatch, nella sua peculiare economia del dono, l'essenziale non è conservare e ammassare beni, bensì dilapidarli.


(GP monocromatico)
La bic poteva essere blu rossa o nera. Gianfranco usa solo il nero. Rigorosamente black. Una scelta assoluta come il bianco di Angelo Savelli.



(GP monomediale)
Allora partiamo da Marshall McLuhan (The Medium is the Message, 1964). Il tratto della Bic non consente sfumature, evanescenze, interruzioni, solo linee e bordi.
GB avrebbe potuto utilizzare più tratti, spessori, diametri. Bic lo consegna a due soli tratti di penna fine (0.09mm) o molto fine (0.05mm).



Prendiamo ora John Ruskin (Modern Painters, 1855). Ruskin considera Turner la più forte individualità del suo secolo ma contemporaneamente stravede per i preraffaelliti. Chiedo soccorso a Hubert Damish: questi ultimi“celebreranno la veracità della luce e saranno d’accordo nel condannare la nebbia e ogni illusione fondata sul flou” (H. Damish. Teoria della nuvola. Per una storia della pittura, Costa & Nolan, 1984). 



Consapevole della inconciliabilità tra Turner e “in generale tutti quelli che avevano in orrore l’indistinto e si dichiaravano difensori di una visione netta, di uno spazio in ogni parte intellegibile”. Scrive sempre Damish: “La preoccupazione di unire in una medesima ammirazione e l’arte di Turner e quella dei preraffelliti avrà così indotto l’ideologo a scoprirsi: dietro lo schermo delle nebbie e delle nubi, resta assicurata la preminenza della linearità (…) (Damish, op.cit., p. 279).


John Everett Millais, "Ophelia", 1852

Tant’è che l’aporia verrà risolta da Ruskin sostenendo che “altri hanno potuto dare un magnifico colore alle loro nuvole; egli (Turner) sarà stato il solo a disegnarle veramente: perché una tale capacità gli viene dalla sua abitudine di disegnare i cieli, come ogni altra cosa, con la punta” (Ruskin, op.cit, p.122).


Dante Gabriel Rossetti, "Beata Beatrix", 1864-70 


(GP monomaterico)
Rigorosamente penna Bic su carta. Urge intelatura/intelaiatura o – caro Gianfranco – si tratta di una rapida obsolescenza programmata? Perché mai accelerarne la caducità?




(GP monotematico)
Trovo gli stilemi gotici, i boschi incantati del mondo di Aghatron (a metà tra la terra di mezzo di Tolkien e un videogioco diseducativo), una limitazione ulteriore, ma è comunque un’opinione personale. Voglio supporre siano lembi di giochi d’infanzia di Gianfranco, rimasugli di un fantasy, sovradeterminato da care antiche letture, 


miti, saghe e leggende equivalenti di un Harry Potter. Comunque utile a recuperare una dimensione ludica, anche se straniante e da “fort/da”. Altra questione, non trascurabile, è che quel bosco di maniera risponde a un’esigenza di – per dirla con Mondrian – esteriorizzazione plastica chiara. Potrà pure essere equivocato come un fumettone ma non è così. E comunque “siamo sicuri che, in fin dei conti, non abbia detto di più su questo sciocco secolo, il '900, Mc Cay con Little Nemo in Slumberland che Freud con L'interpretazione dei sogni?” (Oreste del Buono, prefazione a Little Nemo, quarta edizione, Garzanti, 1994). 



Quelle di Gianfranco, infatti, son tavole, straboccanti di dettaglio ma pur sempre in presenza di una direzione di lettura predefinita, dove si registra pure un guardare-leggere da doppia pagina e di grandissimo formato. I supereroi di Jack Kirby e lo Slumberland di McCay, storie fantastiche, oniriche più che fantascientifiche, diventano pareti, storie monumentali e senza termine. Dal punto di vista del tratto, dei format e dell’iconografia simbolista, il riferimento più vicino sembra Philippe Druillet: “(…) attraverso vicende di illuminazione, redenzione e maledizione. Druillet ricerca ostentatamente un ritmo narrativo lentissimo, lento come una meditazione orientale, in cui il racconto è un puro filo di Arianna per orientarsi nel divagare delle figurazioni visive.



Quello che otteniamo è dunque un guardare orientato dal filo di un residuo leggere. (…) Druillet vuole mettere in sequenza una serie di dipinti, ciascuno da guardare attraverso il percorso interpretativo di un dipinto, senza fretta e senza urgenza di collegarli sequenzialmente tra loro – ma con la consapevolezza che il collegamento c’è (…)” (Daniele Barbieri, Guardare e leggere. La comunicazione visiva dalla pittura alla tipografia, Carocci, 2011).
Così alte e srotolabili - le tavole di GP - da richiedere una barra di scorrimento, una funzione di scrolling verso il basso o verso destra.



«la necessità dello sguardo, la necessità di guardare alla raffigurazione in sé, ma anche la necessità di vedere ciò che non viene raffigurato, per esempio la violenza della morte, la depressione, la castrazione e i tanti altri aspetti correlati alla mutilazione» (Julia Kristeva, La testa senza il corpo. Il viso e l'invisibile nell'immaginario dell'Occidente, Donzelli, 2009). 
E’ il caso di tutte le imago antropomorfe di Gianfranco Pugliese, immancabilmente senz’occhi. Non che non ci sia dello sguardo, spesso incrociati e persino a volte sorridenti, punge però il vuoto perioculare. L’essere tutte maschere funerarie. Insomma, la castrazione.



Sulla soglia del libro Kristeva confessa il suo partito preso: “che l’immagine è forse l’unico legame che ci resta con il sacro: con lo spavento provocato dalla morte e dal sacrificio, con la serenità che scaturisce dal patto d’identificazione tra sacrificato e sacrificanti e con la gioia della rappresentazione indissociabile dal sacrificio, il suo solo guado possibile” (Kristeva, op.cit., p.3).



Nota Jacques Derrida: "Se non lo stesso disegnatore, è il disegno a essere cieco". Non a caso nel 1990 è il curatore della mostra Mémoires d’aveugle, l’autoportrait et autres ruines  al Louvre (Memorie di cieco, l’autoritratto e altre rovine, Abscondita, 2003)


“Lasciar apparire di sbieco ciò che non si può più voler fissare in volto" è il compito paradossale di offrire allo sguardo ciò che dallo sguardo si ritrae.
« La vision de l'oeuvre est conditionnée par le regard ou la voix d'un autre, spectateur supposé qui est, lui, dérobé à la vue ».
Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell'occhio. "Le lacrime vengono agli occhi. Non è l'occhio a chiamare le lacrime, a voler piangere: quando si piange davvero, non lo si fa a comando. E' la lacrima che viene all'occhio, che spontaneamente scorre, bagna l'occhio e lo vela. (...)”.

Ma per GP non ci sono occhi. E nemmeno lacrime.




a cura di Marilù Pallone e Franco Paternostro
photo: Giuseppe Patorno

Massimo Celani
Notte del 21 maggio, scritto con gli occhi velati, non dalle lacrime ma dalla cataratta.



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